TAR Lazio: stop all’anonimato nelle sentenze
Ha suscitato parecchio clamore la sentenza con cui il TAR del Lazio ha dichiarato illegittima l’anonimizzazione a tappeto dei dati personali contenuti nei provvedimenti giudiziari pubblicati sulla banca dati del Ministero della Giustizia.
L’eco che la decisione ha avuto si spiega, soprattutto, in ragione dei titoli di cronaca che, pur non avendo intenti deliberatamente clickbait, hanno indotto i più a pensare – nell’epoca in cui il trattamento del dato personale può diventare una regola e la riservatezza un’eccezione, come nel caso del training di Meta, di cui abbiamo parlato in questo articolo – a una compressione ingiustificata del diritto alla privacy.
Per quanto all’apparenza il provvedimento sembrerebbe porsi in continuità con le tendenze del momento, la decisione del TAR laziale poggia in realtà su fondamenti risalenti, e parecchio chiari: salve eccezioni, è l’autorità giudiziaria a decidere per l’oscuramento o meno dei dati, come previsto dal Codice Privacy agli articoli 51 e 52, disposizioni in vigore sin dal 1° gennaio 2004.
L’anonimizzazione rimane così una mera eventualità, giustificata dall’esigenza di preservare l’essenza della giurisprudenza: la piena conoscibilità degli orientamenti ermeneutici e l’intelligibilità dell’ordinamento.
Nell’eterno scontro tra potere giudiziario ed esecutivo, è questa volta il Codice Privacy a fare da arbitro.
Anonimato nelle sentenze: la svolta del TAR Lazio per la trasparenza giudiziaria
Con la sentenza n. 7625/2025, il TAR Lazio ha messo un freno all’anonimato di massa nelle sentenze pubblicate nella Banca Dati di Merito, archivio cruciale per l’accesso alla giurisprudenza. I giudici hanno annullato il provvedimento del Ministero della Giustizia che imponeva l’oscuramento generalizzato di nomi, date e riferimenti giuridici, definendolo privo di basi legali e lesivo della trasparenza.
Perché l’anonimato indiscriminato è stato censurato
Secondo il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, l’anonimato può essere applicato solo in casi specifici: procedimenti familiari, tutela di minori, o su richiesta delle parti o su decisione d’ufficio del giudice. La scelta del Ministero di oscurare sistematicamente i dati, invece, ha reso le sentenze illeggibili, complicando il lavoro di avvocati e giuristi. Il TAR ha sottolineato che l’anonimato indiscriminato svuota l’utilità della banca dati, nata per garantire l’accesso pubblico alla giurisprudenza.
La riforma contestata e il doppio standard
La disputa sull’anonimato delle sentenze nasce dalla riforma attuata nel dicembre 2023, quando il Ministero ha lanciato due banche dati parallele con fondi PNRR: una riservata ai magistrati (accessibile senza filtri) e una pubblica, disponibile solo tramite SPID ma privata di dati essenziali. L’anonimato eccessivo nella versione pubblica ha sollevato critiche dagli operatori del diritto, sostenuti dall’Ordine degli Avvocati di Milano.
Doppio database e accordo con gli editori: le critiche del TAR
Il TAR ha censurato anche la scelta di mantenere due banche dati separate, giudicandola “irrazionale” e contraria all’uso efficiente delle risorse. Inoltre, ha evidenziato un paradosso: l’accordo tra Ministero e AIE consente a editori privati di pubblicare sentenze integrali, mentre il database pubblico resta limitato. Una disparità che rende insostenibile l’anonimato generalizzato.
Cosa succede ora: trasparenza e privacy in equilibrio
Con l’annullamento del provvedimento, il Ministero deve ridefinire le regole, garantendo accesso completo alle sentenze ma rispettando la privacy solo nei casi previsti dalla legge. La decisione segna una vittoria per gli avvocati, ma la partita potrebbe riaprirsi se il Ministero ricorrerà al Consiglio di Stato. Intanto, d’ora in poi l’anonimato resta un’eccezione, non più la regola.